Le
luci della città cominciarono ad animarsi, l'alba spuntò fresca
di rugiada, una rugiada sottile pronta a fissarsi alle ossa,
a raschiar via una notte anonima come mille altre, in graduali
variazioni di luminosità e colore che, avvicinandosi senza
alcuna fretta al mattino, sembravano seguire l'incerto cammino
di Gio, impegnato a tornare a casa dopo una notte a dir poco
bianca.
Barcollava nella penombra dei viali alberati scagliando improperi
alle figure immaginarie che la poca luce disegnava. Avesse
avuto un bastone, le avrebbe pure picchiate. Avrebbe picchiato
loro e tutti i fantasmi che lo circondavano. Un eterno jazz
gli pompava nel cervello, un giro di basso ripetitivo a sfondargli
il cranio. La tromba emise un suono lancinante che gli squarciò
il cuore, il corpo intero. Un dolore acuto al fianco e uno
alla milza lo costrinsero a camminare piegato verso il basso,
con il mento schiacciato nel petto. Non esisteva un solo pezzo
di lui che non dolorasse: contava i passi per non arrivare
mai .
Il charlie picchiettò sadicamente un mood isterico, mentre
le terzine sul rullante agitarono il vomito che ben presto
sarebbe tornato a salutarlo. Non era un cinque quarti, no.
Non era nemmeno uno standard.
Era qualcosa d'insolito. La chitarra elettrica entrò a straziargli
quel briciolo di pensieri ancora intatto. Sembrava no wave.
Gio si appoggiò pesantemente a un albero e vomitò. Si piegò
e stringendo salda la fronte con una mano rivoltò lo stomaco
a terra. E gli sembrò che in quella pozza fosse finita pure
la sua anima: un'anima di colore mesto, tra il grigio topo
e il marrone, se ne stava comodamente sdraiata sulla poltiglia
organica a sorridergli. Vomitò ancora e l'anima non parve
preoccuparsene. Per pochi attimi fu ricoperta da un altro
litro di rifiuti liquidi che puzzavano tremendamente di vino.
Vino. Vino, vino.
Com'è bello il vino. Rosso, scaraffato, versato in bicchieri
di dolce cristallo. Portato alla bocca per donare soavità
al palato e ai pensieri. Regalo a cui non puoi dir di no.
Gio inalò i vapori alcolici del suo vomito. Un gong lo fece
quasi cadere a terra, poi il charlie ricominciò il suo ritmo
ripetitivo ed incalzante con appena qualche variazione o accento.
Si tirò su e ancora instabile respirò profondamente. Sembrava
volesse prosciugare tutta l'aria del mattino e gli parve di
stare meglio, poi accese una sigaretta e riprese a camminare.
Avrebbe consumato le ultime energie per tornare al letto caldo
che lo attendeva, ad un caffè bollente che gli avrebbe raddrizzato
lo spirito e ad un bagno, sì, un soffice caldo bagno, ricco
di sali minerali, come quello rilassante delle pubblicità,
con una splendida donna insaponata dentro.
Un tale pensiero, per quanto contorto, lo fece scoppiare a
ridere e avrebbe continuato un'ora e più se solo quella fitta
non gli avesse squassato la bocca dello stomaco aprendolo
in due. Il timpano iniziò una carica selvaggia, come in un
intro di Benny Goodman di cui non ricordava nemmeno il nome.
Gio rimase immobile, accasciato al suolo, carponi e senza
fiato. Più vomitava e più stava male. Mai nella vita era stato
così male. Un male cane, allo stomaco. L'indomani ci avrebbe
dato un taglio, sicuro!
Ma il vino, quel vino, era stato così buono.
Soave e profumato lo aveva cullato per tutta la sera. Una
serata eccezionale. Dopo il concerto, l'avevano invitato a
un tavolo, gente in, e insieme a quelli aveva bevuto e bevuto
e bevuto. Gli avevano pure offerto un "personalissimo" invito
a cena, una di quelle cene alle quali partecipano solo le
persone facoltose e famose. Non c'era mai stato a una festa
simile.
Queste erano le ultime cose che ricordava.
Un china gli attraversò le trombe di Eustachio devastandogliele,
poi un oboe e un clarinetto iniziarono a duettare tra testa
e costato. Fu costretto a sedersi su una panchina, altrimenti
crollava a terra.
Mamma mia, dannato vino!!!
Accese un'altra sigaretta e la guardò bruciare nell'umidità
del mattino. Fece una lunga, lenta boccata e pensò a quanta
tristezza e crudeltà la vita potesse riservare ad un musicista
jazz.
Pensò a quanti dei suoi eroi erano morti consumati dalla vita
e dall'alcol.
E provò una tremenda, disarmante paura.
Il sax tenore vibrò nelle sue viscere e gli raggiunse il cuore.
Avvertì un'insolita sensazione salire per l'intestino ad afferrargli
lo stomaco. Si sentì, improvvisamente, solo ed impotente in
mezzo a quella strada deserta.
Gli venne una paura fottuta di morire: tutti, in fondo, abbiamo
paura di morire. Ma morire così, col fegato spappolato era
un'idea che lo paralizzava. Aveva trentaquattro anni e una
faccia stanca, le mani magre e scavate, il corpo esile e nervoso
immerso in un'esistenza sregolata di cui spesso avrebbe fatto
volentieri a meno. Ma quella era la sua vita.
In un certo senso, se l'era scelta lui e sarebbe andato avanti,
con le sue poche certezze e i suoi grandi sogni sempre in
tasca. Ma poi chi l'ha detto che sarebbe morto?
Un sorriso gli crebbe in volto e gli arrivò sino alla punta
dei capelli. Raccolse le forze che gli rimanevano e si sollevò
dalla panchina. Lo stomaco e il corpo continuavano a dolere
senza tregua, gli occhi lucidi, la testa tremendamente pesante
e la stanchezza di una notte bianca a fargli compagnia.
Sentì ripartire la batteria e il contrabbasso scivolare sopra
il ritmo, un ritmo familiare.
Entrò nel primo bar aperto lungo la via e ordinò un bicchiere
di buon vino rosso. Lo vuotò di un sol fiato e ritornò all'aria
fresca del mattino, perché era questo ciò che amava. Poi,
dal taschino, tirò fuori la sua armonica a bocca, prese fiato,
batté quattro col piede e cominciò a suonare.
Massimiliano Nuzzolo