Libere escursioni in campo indiepop, dischi e gruppi dimenticati ed altro ancora.
Non sono cresciuto col pop, con le canzoni. La mia adolescenza é stata segnata dalle suites di 20 minuti, dai virtuosismi funambolici e dagli assoli interminabili, dalle maschere di Peter Gabriel e dalla pacchianeria degli Emerson, Lake & Palmer. Erano gli anni '70, d'altronde (il punk c'era già , ma io non ero in grado di apprezzarlo). Poi con la maggiore età é arrivato il grande freddo, la stagione della new wave e del dark sound, l'amore per Cure, Bauhaus e Virgin Prunes, l'ossessione per i Joy Division, soprattutto. Poi é arrivata la primavera, finalmente. Grazie a gruppi come Smiths, R.E.M., Prefab Sprout, Lloyd Cole & The Commotions, Aztec Camera, Echo & The Bunnymen, XTC. E grazie a due dischi che mi hanno dischiuso le porte del paradiso perduto dei sixties, fino ad allora ignoto, e mi hanno permesso di mettere tutto in prospettiva dandomi le basi necessarie per poter apprezzare l'arte certosina del songwriting. Due dischi, questi qua: |
Ivo Watts-Russell é stato una delle menti portanti della scena musicale inglese degli anni ottanta. Discografico di raro intuito e passione, l'uomo dietro al marchio 4D, l'etichetta di Cocteau Twins e Dead Can Dance. Ma anche un uomo con una visione, un non musicista maniaco della musica, il creatore del progetto This Mortal Coil. Che erano una sorta di supergruppo con i musicisti della casa madre a ruotare come una sorta di orchestra per dare corpo alla rivisitazione delle ossessioni sonore di Ivo. Molti classici dei sixties ma anche pezzi dell'era new wave, più alcuni brani originali a fare da collante, con un suono etereo e sognante. Tutti e tre i dischi incisi sono memorabili, ma quello dall'impatto più forte per me é stato senz'altro l'esordio It'll End In Tears dell'84. Non fosse altro per quella meraviglia che é "Song To The Siren" di Tim Buckley, resa se possibile ancora più paradisiaca dalla voce senza eguali di Elizabeth Fraser. Ma non solo, ci sono anche un paio di gioielli notturni di Alex Chilton, Kangaroo e Holocaust, da quel capolavoro melanconico che é Big Star Third/Sister Lovers. E poi la voce di Lisa Gerrard. E molto altro, ma lascio il piacere della scoperta a chi non l'ha ancora mai ascoltato. |
Anche dall'altra parte dell'oceano, nello stesso periodo, il ritorno alle origini dopo gli eccessi del pop di plastica era pratica comune, soprattutto grazie a quel manipolo di musicisti californiani, figli del punk ma con la testa e il cuore nei sixties, che diede vita all'esperienza breve ma intensa di quello che fu chiamato Paisley Underground. Un po' comune freak, un po' laboratorio musicale, l'esperienza collettiva non durò a lungo, poi ognuno per la sua strada, con alterne fortune ( Dream Syndicate e Long Ryders sono acclamate cult bands, le Bangles hanno avuto il loro momento di gloria, ma chi si ricorda dei Three O'Clock?). A suggello di quei giorni del vino e delle rose resta una sorta di manifesto sonoro, concepito dalla fervida mente di David Roback. Rainy Day (1984) mantiene quel che la tenera copertina pastello promette. E' un viaggio a ritroso tra le meraviglie del passato, una festa di carnevale in cui ognuno dei protagonisti indossa la sua maschera preferita. E così ecco la chanteuse Kendra Smith rendere algida e maestosa la Flying On The Ground Is Wrong del giovane Neil Young periodo Buffalo Springfield e aggiungere pathos, laddove fosse possibile, alla chiltoniana Holocaust (sì, pure qui). Susanna Hoffs ingentilisce I'll Keep It With Mine di mastro Bob Dylan e gioca alla piccola Nico in I'll Be Your Mirror. Karl Precoda svisa da par suo omaggiando sua maestà Jimi Hendrix in Rainy day, Dream Away. Completano il programma gli omaggi a Who e Beach Boys, a comporre un acquarello tenero e gentile che é sopravvissuto agli sfregi del tempo. |
Gabriele Marramà