Flowerdelica(cy) - Petali laccati ed altre eternità posticce
Primal Scream Sonic Flower Groove (1987, Elevation/WEA)
E diciamolo! Diciamo una volta per tutte la verità nascosta
dal velo di Maya del diktat elettronico: questo é il miglior
album dei Primal Scream.
Screamadelica ha innovato
la pop scene internazionale, e non é poco.
Exterminator
ha dalla sua un'impareggiabile potenza street-tronica. Ma
queste sono verità d'
altre voci, altre stanze: i due
album, strepitosi ed essenziali, sdrucciolano nel "sensuale"
e patiscono un congelamento emotivo che li spedisce in un'orbita
lontana dal cuore indie più puro. Loro comunque si meritavano
di ascendere all'empireo, Bobby doveva diventare almeno quella
star defilata che é, e se di più non era possibile, tutto
era già scritto in quelle note ancora precedenti che corteggiavano
la purezza. E così sia.
Erano le prime battute post
Mary Chain, i due singoletti
che preludono alla meraviglia dell'album di debutto, con quattro
canzoni che fin dall'inizio sono entrate in orbita,
schiette-perfette,
nell'eternità indie -
ufo pop,
eden pop,
hortus
conclusus pop,
fontane di giovinezza pop- custodendo
il proprio segreto, instillando delizia e mistero:
All
fall down/It happens e
Crystal crescent/Velocity girl.
Pur considerando l'LP a un livello lievemente inferiore rispetto
ai due 45 gg., siamo qui per parlare di quell'altra pop-machine
delicata e precisa che continua a porgere al mondo (a soli
10 euro circa) un bouquet profumatissimo di 10 fiori sonici.
Sonic Flower Groove é un amorino che, quasi scevro di
leziosità , centra con una sola freccia l'impronunciabile trittico
sole-cuore-amore. E lo fa con tanto d'immaginazione
melodica da putto in estasi. I sensi sono un ricordo, il sogno
e la fantasticheria sono tutto. Sfidando Kronos e il Samsara,
la Psiche adolescente 80s si reincarna nella California dei
Love e dei
Byrds. Navigatore della Macchina
del Tempo, Mayo Thompson. Rapiti, Gillespie (voce) e Bettie
(chitarra a 12 corde) si lasciano trasportare in pieno controllo.
Apre il disco il tema di chitarra del primo singolo,
Gentle
tuesday, e sprigiona tutto ciò che verrà come farebbe
l'incipit di una miniatura medievale. I Byrds si spogliano
dei loro tratti di mascolinità e tornano
ragazzine,
una dolcezza decisa si fa strada e porge gentilmente la propria
solarità mentre canta di occhi tristi e solitari. Come se
soltanto la fantasticheria d'amore avesse davvero importanza,
e la sua corsa verso una trasognata dissoluzione. Al potere
il jingle-jangle di Bettie, che intarsia sottolineature melodiche
dove la melodia della voce non arriva. Seconda strofa introdotta
da una variazione dell'incipit byrdsiano e poi via verso il
glorioso ritornello e l'assolo che chiude con un lirismo-cartolina
perfetto, da tramonto infuocato visto dalla cameretta ("it
is obvious" m'incalzerebbe Barrett, ma sono proprio i vetri,
il
frame, a fare la differenza).
Treasure
trip parte festaiola quasi come una marcetta popolare,
ma presto ritorna allo sguardo introverso per una breve meditazione,
poi sboccia in un passo da
Pippicalzelunghe mentre
le vocali coristiche sorreggono il passaggio alla strofa successiva.
Colma ancora di riflessioni su tempo, amici e sensazioni.
Assolo lungo che termina con riffettini ritmici. Questo é
l'unico pezzo che rimanda al pop-blues dei primi
Rolling,
ma l'attitudine é puro Primal, con passaggi dolci e sempre
sognanti.
Parte
May the sun shine bright for you e si capisce
subito che di ballad psichedelica si tratta. Il tema di Jim
'Navajo' introduce quello che mi é sempre sembrato un perfetto
connubio fra primi
Pink Floyd e
Church. Tintinnii,
sospiri di Bobby e un finale eccellente in dissolvenza, con
la chitarra che in pochi secondi mima
14 ore di
sogno
inglese in
technicolor.
Sonic sister love é purissimo pop e sta al resto come
"Just like heaven" sta ai dischi dei Cure: l'abbiamo già sentita,
e forse anche nelle poche canzoni che sono appena trascorse
dall'inizio del disco, eppure é smagliante.
Abbagliante invece é
Silent spring, con i
Love
che danno un passaggio ai
Monkees: parte con chitarra
acida e resterà la cavalcata "easy" più potente del mazzo.
Il tempo, le stagioni, e il solito sguardo fermo, rapito dalle
sensazioni che solo l'esperienza della bellezza può dare.
Iterazioni e infiltrazioni backwards come la
psichedelia
vera, ma ormai, alla fine del primo lato, si é rivelato
il gioco e sappiamo che l'immersione nel rock dei 60s é sì
passione e amore, ma soprattutto offre la "materia" da manipolare
per effetti di pop delicato e sognante, semplice (ma la chitarra
non lo é per niente) ed essenziale. Il lavoro del basso e
della batteria va in questa direzione, e sebbene quelle ritmiche
possano sembrare le parti musicali più deboli, funzionano
da perfetto collante e
smalto-lacca anni 80, pur suonando
in apparenza vecchie di vent'anni.
Imperial, secondo singolo, l'unico brano non prodotto
da Mayo Thompson, bensì da Colin Farley. E la differenza si
sente, cambia la dinamica, più moderna e agile (in senso anni
80), una viola é in primo piano, le chitarre vanno un poco
più sullo sfondo e hanno un suono meno cristallino, mentre
emerge la ritmica. Ma il brano é di scrittura eccezionale,
con un ritornello che si stampa per sempre in testa e alla
fine la produzione più "commerciale" non lo penalizza.
Segue
Love you, ballata dolcissima di grana meno fina,
ma nella coda sentiamo il piano di
Martin Duffy, dunque
le si possono perdonare gli unici eccessi di leziosità del
disco.
Leaves
ha un arpeggio da marcetta folksy che introduce la melodia
più
Beach Boys del lotto. Come se Wilson e soci, invece
di andare in spiaggia, quel pomeriggio avessero deciso di
farsi una scampagnata. Se fosse ulteriormente semplificata
e non avesse il solito
flou californiano potrebbe essere
uscita dalla penna di
Stephen Pastel.
Quasi country suona la chitarra mobilissima di
Aftermath,
e come nei primi
Felt qui avviene che dietro una melodia
vocale basata su temi di poche note, si muova uno sfondo,
un trasparente
cinematografico molto dinamico sul quale
Bobby Gillespie appare adolescenzialmente spettrale, anche
quando alza un po' il tono e fa culminare il ritornello con
un imperativo/vocativo "You're the one for me!".
E poi
We go down slowly rising, come arrivare alla
Terra Promessa. Breve, ma é,
impercettibilmente, una
mini-suite strutturata in più parti. La chitarra torna ai
suoi jingle-jangle più byrdsiani, il cerchio si chiude
fittiziamente,
come se dovessimo credere davvero al tempo che ritorna, ai
sixties che ritornano, all'eternità delle forme, mentre ciò
che abbiamo ascoltato non é revival, bensì una concezione
del pop che sta venendo alla luce, l'uso decorativo di un
passato, manipolato per farlo aderire alla psiche musicale
contemporanea. Film in miniatura,
We go down. parte
lenta e introversa. Racconta un dettaglio e poi s'apre alla
storia, sboccia e assorbe tutto il sole, corre verso la cima
all'orizzonte da cui si guarda intorno lasciando spazio ad
arpeggi descrittivi, per poi impennarsi in un finale emozionante
come lo sguardo che desideri ricevere da chi sai. Una dichiarazione
d'amore al rapimento estatico delle
teenage symphonies.
Una chiusura perfetta, che ascende inabissandosi.
E diciamolo, diciamolo una volta per tutte!
Sonic Flower
Groove é da riporre in quello scaffale contrassegnato
dalla targhetta "Psychedelic Pop Masterpieces of All Times".
Davide Ariasso